Dalla Cambogia siamo tornati ormai da più di una settimana, che anche se non è molto, è forse abbastanza per cominciare a scriverne qualcosa.
Non ho mai amato molto quei racconti in cui si sprecano perifrasi raggelanti del genere “terra-dei-sorrisi”, per cui un po’ mi detesto per quello che sto per dire, eppure devo: la Cambogia è effettivamente quel tipo di posto dove un sorriso risolve molte cose. Risolve l’incomprensione linguistica, il ritardo infinito di un qualche mezzo di trasporto, o le insistenze a volte esasperanti del venditore di qualcosa che tuo malgrado non vuoi comprare. La gentilezza e la riservatezza dei cambogiani è qualcosa che ti si insinua silenziosamente dentro, come un semino nella terra, ed è bellissimo che a distanza di giorni dal rientro a casa, si continui a trovare tutto sommato intollerabile e volgare il pensiero di infuriarsi per un nonnulla o alzare la voce con altre persone per faccende di poco conto.
Per la primissima volta rientro da un viaggio sentendo di voler essere un po’ diversa da come ero prima di partire. Quel po’ di Cambogia che abbiamo potuto conoscere ci ha insegnato una sorta di pazienza, di quieta sopportazione, al punto dal farmi provare disagio scorgendo ogni tanto in me stessa atteggiamenti intolleranti tipici del nostro tempo e del nostro mondo, atteggiamenti frettolosi e assolutisti, che in un villaggio lungo il Tonlé Sap sarebbero senz’altro fuori luogo, e di cui vorrei privarmi volentieri anche qui.


Volevo scegliere qualche fotografia per iniziare a mostrarvi un po’ delle cose straordinarie che abbiamo visto, ma non sapevo davvero da dove iniziare. Dall’incanto di Angkor? Dalla bellezza delle strade alberate di Phnom Penh? Oppure dalle spiagge pazzesche di Koh Rong? Per non fare confusione ho pensato a quale sia il momento che più di frequente mi torna in mente a distanza di giorni, quel momento che segna il viaggio, e che c’è sempre ogni volta, ovunque si vada.
Ecco, ho deciso che comincerò da qui, dal momento in cui percorrevamo la tratta fluviale da Siem Reap a Battambang, e decine di manine ci salutavano dagli argini ridendo, divertite forse da tutti quei giovani pallidi e ustionati dal sole distesi sul tetto della barca.
Avevamo preferito salire sul tetto perché i posti all’interno erano finiti, restava solo qualche sedile sul fondo della barca, tra il fumo e il frastuono del motore, posizione tremenda per passarci le 8 ore di traversata fino a Battambang. Così siamo saliti sul tetto insieme agli zaini, era mattina presto e i colori del fiume erano stupendi, il sole ancora sopportabile, e da lassù il mondo era ancora più bello, è stata una vera fortuna che avessero già stipato la barca.
Credo che quello sia stato uno dei momenti più straordinari di tutto il viaggio, e probabilmente uno dei più belli di sempre. Tutta quella vita, lungo il fiume, i bambini a fare il bagno, i negozi galleggianti, manine a salutare e gran risate dalle sponde, donne sedute per terra dentro le case, eleganti come delle regine. E intanto la barca si infilava in stretti passaggi tra le fronde degli alberi nati forse nella stagione secca, quando l’immenso lago si riduce a una piccola pozza, mentre adesso pareva che un intero mondo fosse stato sommerso improvvisamente e inaspettatamente dall’acqua.
“I don’t know why but I had to start it somewhere”, cantavano i Pulp. Ecco, è solo un minuscolo frammento di Cambogia, ma da qualche parte dovevamo pur iniziare, giusto?




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Anche noi abbiamo seguito questo itinerario. E anche per noi vedere la vita lungo il fiume (fra momenti idilliaci e alcuni molto meno, come certe anse del fiume piene di spazzature o alcune palafitte messe davvero male) è stato indimenticabile. Sento risuonare le mie emozioni nelle vostre parole, sento questo post molto vicino.